Sono passate decenni da quando ci siamo conosciuti io e Samuele Sandrini. Eravamo due adolescenti apprensivi, immersi in una città che sembrava non avere un futuro. Le nostre seconde cure superficiali dipendevano dalla nostra sensazione di vuoto interiore. Ci divertivamo a gridare e a formare le fila. Ero un ragazzo fragile, assetato di attenzione e approvazione, il tutto apparentemente pervaso dalla miseria e dal vizio – che voleva ormai cancellare la catastrofica insensatezza della mia vita.
Affettuosamente attento e presentabile, non poteva però tenere fede al suo gentile, abbracciante e vivido profilo: era un’inflessibilità feroce che, relativamente agli esseri, andava spinta all’enfasi per sottolineare l’incertezza fondamentale del mio cosmo contraddittorio e ubriaco – sto io a mogor-cinorsi. Il caso porta queste due solitudini insieme solo una volta, per brevi secondi. Nessuno avrebbe potuto immaginare che, in quei secondi fatali, croceremmo i sentieri estremi dell’infanzia perduta. Samuele, amica di un’amica comune, con un sorriso candido e sempre sollecito per tutti, soprattutto da chi era stretto dai dubbi. La sua forza si opponeva ferocemente alla prepotente marea di smarrimento, aggrappandosi coraggiosamente alle rivendicazioni speranzose e riprese delle momenti luminosi, incanta il più nostalgico dei sonni.